(
« il programma comunista», N°15 e 16,
1955 )
1 - Marxismo ed enigma russo
2 - Rivoluzione europea borghese e proletaria
3 - Cose sociali di Russia
4 - Nomadismo e società fissa nell’area «grande slava»
5 - Il marxismo russo
6 - Bolscevichi e menscevichi
7 - Due tappe della rivoluzione russa
8 - Guerra, pace e rivoluzione
9 - Rivoluzione in un solo paese
10 - L’arrivo di Lenin in Russia
11 - Teoria e storia. Da aprile a luglio 1917
12 - Da luglio ad ottobre. La rivoluzione prorompe
13 - Totalità inesorabile della rivoluzione politica
14 - Distruzione della guerra imperialistica
15 - Stritolamento delle controrivoluzioni
16 - Il tragico cammino della rivoluzione europea
17 - L’insormontabile alternativa storica al 1926
18 - Economia: periodo primo. Il cosiddetto «comunismo di guerra»
19 - Periodo secondo: la nuova politica economica
20 - Industrialismo di Stato
21 - Terzo periodo: lotta al kulak
22 - Le due costituzioni: 1918 e 1936
23 - Odierno diritto civile sovietico
24 - Industria delle costruzioni
25 - Proprietà e godimento
26 - Dove va la Russia?
Poiché la riunione di Genova del 6-7 agosto 1955 si
accavallava alla pubblicazione a puntate de «La struttura economica e
sociale della Russia d’oggi» sul nostro quindicinale, il relatore, come di
norma, ricollegò la trattazione da svolgere alle precedenti esposizioni verbali
di altre riunioni e alla pubblicazione in questo giornale dei diffusi regolari
resoconti. Ricordò come, dopo una serie di studi organici sulle questioni del
movimento e della sua teoria, sotto i profili economici, storici, sociali e
politici, nei quali tuttavia erano stati più volte posti in tutta la loro
estensione i problemi legati alla situazione e allo sviluppo della Russia, ed a
seguito della pubblicazione di una serie di «Fili del Tempo» apparsi nel
1953 sotto il titolo «Dialogato con Stalin», si era voluta dedicare
sistematicamente una serie di riunioni interregionali alla Russia.
Alla riunione di Bologna, il 31 ottobre e 1° novembre
1954, il tema fu: «Russia e rivoluzione nella teoria marxista», ed il resoconto
in esteso (che poi, come più volte avvertito, è una nuova elaborazione,
successiva alla esposizione verbale e maturata dopo l’incontro con gli
ascoltatori, le loro impressioni e richieste di sviluppi), fu dato in «Programma
Comunista» in 11 puntate tra il n. 21 del 1954 e il n. 8 del 1955.
Storicamente tale trattazione giunge fino alla data della prima guerra
mondiale. Alla riunione di Napoli, 24-25 aprile 1955, il tema fu «Struttura
economica e sociale della Russia d’oggi» e comprese una esposizione delle
vicende della rivoluzione in Russia nelle fasi del 1917, in sintesi, e quindi
un esame della struttura sociale della Russia presente, dimostrando la nostra
tesi centrale, che ivi vige una economia capitalistica nella sua ormai bene
avviata edificazione in tutto il territorio.
Il relatore dichiarò che nella riunione di Genova
avrebbe ripetuto quanto esposto a Napoli, in ispecie a partire dal livello
raggiunto nel diffuso rendiconto pubblicato in 5 puntate di «Programma»,
tra il n. 10 e il n. 15 dell’anno in corso : per tal modo il resoconto sarà
unico, nella sua continuazione, per le riunioni di Napoli e Genova.
Annunziò quindi, fedele al metodo delle ripetizioni dei
temi di base, che avrebbe premesso una ricapitolazione breve delle tesi svolte
a Bologna e di quelle svolte a Napoli e nelle sei puntate di resoconto
sopraddette, svolgendo poi in tutta l’ampiezza quanto a Napoli già detto sulla
storia della rivoluzione sovietica (a partire dalle tesi di Aprile 1917
da Lenin date al suo rientrare in Russia) e sullo svolgimento delle forme
economiche, muovendo quindi dall’Aprile, trattando l’Ottobre e la vittoria
politica bolscevica, il lungo periodo della guerra civile; ed infine il contenuto
dell’opera di governo nei suoi vari periodi, dal «Comunismo di guerra» alla
«Nep» ed al terzo periodo, definito con bestemmia dottrinale di costruzione del
socialismo, e che noi definiamo periodo di formazione della totale economia e
struttura sociale capitalistica, sulle rovine di quelle feudali e asiatiche.
In un prossimo numero del giornale il resoconto
completo, che potrà ben prendere nome da Napoli-Genova 1955, riprenderà ad
essere elaborato in dettaglio muovendo dalle Tesi di Aprile. In questi due
numeri, 15 e 16 del 1955, diamo una sintesi succinta di tutto il corso di
trattazioni sul tema russo, da Bologna a Napoli e Genova, che crediamo possa
essere utile a buon orientamento di quanti seguono con impegno massimo il
lavoro in profondità che tutto il partito nel suo insieme ha tenacemente preso
a sostenere.
Siamo così sicuri di rispondere alla attesa di tutti i
compagni, e soprattutto di quelli che non hanno potuto essere presenti, ed alla
soddisfazione mostrata da tutto il folto e impegnatissimo uditorio per la
maniera sistematica e solida di porre sul tappeto e condurre a soluzione tutte
le grandi e vitali questioni proprie del tema, senza il minimo riguardo sia per
i pregiudizi che anche agli ottimi marxisti la società ambiente sempre getta di
nuovo tra i piedi e davanti agli sguardi, sia e soprattutto per le misere,
demagogiche speculazioni delle bande avverse, e anche - last but not least
- per le pietose sbandate di piccoli gruppetti che, pur colpiti nel
subcosciente dal dilagante fetore dell’opportunismo trionfante, reagiscono in
modo insufficiente e deteriore, incappando, traverso elucubrazioni
intellettuali di persone o di dubbi cenacoli e circoli di «libera discussione»,
in slittate teoretiche certamente più perniciose del crasso diguazzare nel vile
commercio di principi che distingue il «comunismo» ufficiale di questi amari
tempi.
Sorto il sistema unitario marxista, nel doppio
inseparabile aspetto di scienza della economia moderna mercantile capitalista
(Inghilterra, Europa occidentale e centrale) e di teoria dello svolgimento
storico che fa dipendere le forme e le lotte politiche dalla sottostruttura
economica e dallo avvicendarsi dei modi di produzione tipici, anche i suoi
seguaci, davanti ad una Russia in cui la rivoluzione liberale tardava, e con
essa il gran trapasso dal modo feudale a quello borghese di economia, si
fermarono davanti al quesito: Vale la dottrina del materialismo storico a
spiegare anche lo svolgimento della storia russa? O è questo originale,
peculiare, estraneo agli schemi di classe e al modello delle successioni
storiche fondato da Marx sui dati della storia dei paesi giunti nell’ottocento
alla piena forma capitalistica?
Nostra risposta: La teoria materialista della storia e
la legge della scienza economica sono, per la scuola marxista, applicabili alla
Russia e all’Europa. Esse hanno valore per tutti i luoghi e tutti i tempi del
divenire sociale umano, per tutti i trapassi da uno ad altro modo di
produzione, per i popoli più sviluppati come per quelli più arretrati.
All’inizio del movimento operaio moderno, dopo le
grandi rivoluzioni borghesi in Inghilterra (sec. XVII) e Francia (secolo
XVIII), e al tempo del grande incendio rivoluzionario del mezzo secolo XIX, che
deve estendere la rivoluzione liberale all’Europa continentale, e in cui un
proletariato già dotato di connotati organizzativi e teorici è presente, nonché
per tutto il susseguente periodo fino alla Comune di Parigi (guerra franco-prussiana
1870-71), come il nascente movimento internazionalista operaio e la sua
dottrina marxista valutano il gioco della Russia?.
La risposta è che in una tale fase storica e in tale
campo geografico (area) i marxisti, pure avendo il chiaro fine di far scoppiare
la rivoluzione socialista e sradicare la forma capitalistica ove essa è matura,
appoggiano ogni moto per la sistemazione liberale e nazionale-indipendentista
di Europa come inseparabile condizione della liquidazione della reazione
feudale, e quindi difendono le guerre di liberazione nazionale di tedeschi,
italiani, ungheresi, polacchi e così via. Lo Stato
russo è considerato non maturo per una rivoluzione interna anche borghese
liberale, e definito come «riserva della controrivoluzione». Pregiudizialmente
allo studio delle sue forze interne, è tesi marxista sicura quella di favorirne
la sconfitta militare in ogni urto con potenze europee, come quella dell’alleato
sistematico della reazione sia quando una capitale europea si leva contro l’assolutismo
feudale, sia ed ancor più quando la classe operaia, come forza nuova e diversa,
scende sulla barricata.
Quindi con
rigorosa coerenza teorica la Prima Internazionale e il suo Maestro Carlo Marx
sono per la vittoria contro la Russia tanto degli insorti di Polonia, quanto
degli eserciti europei alleati coi turchi, e della Turchia sola (sebbene più
che feudale), come nella futura prevista grande guerra della Germania contro slavi
e latini. Di
qui tutte le menzogne sulla posizione antislavista di Marx per pretese ragioni
nazionali e razziali.
Dal 1871 in poi, caduto Napoleone III alleato della
Russia, e levatosi eroicamente il proletariato di Parigi, il marxismo è per la
vittoria del proletariato contro tutti gli eserciti europei, compreso il russo,
contro di lui confederati, pur plaudendo ancora nel 1877 alla disfatta a Plevna
delle truppe zariste.
Dall’interno dell’immenso paese giungono ormai insopprimibili
gli echi di una lotta rivoluzionaria delle classi, e della ribellione al regime
dello zar e dei feudatari. Come questo corso si svolgerà? Darà esso luogo ad
una rivoluzione liberale, al potere parlamentare della borghesia ed allo
sviluppo economico capitalista che farà nascere un potente proletariato, al
passo con quello europeo? Una teoria rivoluzionaria marxista sostiene una ben
diversa prospettiva, che vuole poggiarsi sul sopravvivere in Russia della
primitiva forma del villaggio agricolo comunista, soggetto, sia pure, alla
nobiltà e allo stato autocratico, e traccia la via di un passaggio ad economia
collettiva col «salto» della fase capitalista. Come Marx ed Engels vedono una
tale tesi, che eleva al rango di classe rivoluzionaria i contadini al posto
degli operai salariati?
La risposta di Marx è che il poggiarsi di una economia
comunista sui residui del comunismo primitivo è pensabile solo se la
rivoluzione russa sarà contemporanea ad una vittoriosa rivoluzione europea del
proletariato moderno, che si impadronisca su scala totalitaria dei mezzi di
produzione capitalisti.
Ben presto egli dichiara che una tale occasione storica
è perduta per la Russia: lo zarismo stesso vi introduce l’industria urbana, la
riforma agraria nel 1861 in realtà più che liberare i servi ha trasformato gli
antichi coltivatori in comune in minimi agricoltori proprietari o aspiranti a
tale condizione, che ne fa non dei rivoluzionari ma dei codini.
L’analisi russa interna è poi condotta da Engels con
studi del 1875-1894. Essa conduce ad escludere la congiunzione storica tra l’antico
mir comunistico e il socialismo, la capacità rivoluzionaria del contadino se
non a fini di una rivoluzione puramente borghese di cui ancora non sono in
campo i protagonisti, e constata l’affermarsi potente di forme di pieno
capitalismo in una industria delle città, in una rete ferroviaria moderna, e in
stabilimenti meccanici per fini guerreschi di primo ordine. Assegna quindi alla
Russia lo stesso svolgimento delle nazioni di Europa più avanzate, e ribadisce
la tesi centrale del marxismo: la Russia può accelerare la corsa verso il
socialismo, cogliere le occasioni che le rivoluzioni antifeudali danno
storicamente al proletariato, su una sola base: l’appoggio di una trionfante
rivoluzione sociale in Europa.
Scritti dei grandi marxisti europei e russi ci sono
valsi, ai fini del giudizio sulle più recenti forme e fasi sociali e politiche
in Russia, a combattere l’affermazione che nella storia russa dalle origini
cada in difetto la possente teoria Marx-Engels-Lenin sulla società e lo Stato.
Lo Stato non appare che in società ormai stabilmente fissate su un territorio.
Ma non vi appare necessariamente subito, bensì solo quando tali prime società,
in ragione soprattutto della poca terra disponibile in rapporto alla forza
numerica umana, si scompongono in classi e in cozzi interni ed esterni. Densità
umana, natura del suolo quanto a possibilità di movimento, a clima e a
fertilità, hanno quindi dato luogo a diversi tipi di sviluppo, nei quali lo
Stato si è presentato a stadi ben diversi.
Una parallela applicazione della teoria del
materialismo storico, svolta nel nostro studio, ci fa assistere al nascere
dello Stato nei vari grandi campi. In quello asiatico rado lo Stato sorge
quando in lotte tra libere gentes comuniste troppo vicine un popolo militare ne
assoggetta altri e forma classi di schiavi «personali», masse di forza lavoro
rurale e urbana al servizio di capitani, monarchi e famiglie signorili. Nel
campo asiatico fitto lo Stato centrale si fonda sul tributo e la soggezione
collettiva di villaggi agricoli stabili, in cui lavoro e consumo sono comuni e
collettivisti; forma specialmente statica per millenni. Nel campo greco-romano
classico lo Stato è democratico per una classe di liberi, diversamente padroni
di terra e di schiavi, posseduti non come collettività ma come singoli possessi
(uomini e suolo) di individui della classe libera. Stato
tardivo, ma avanzato e di sviluppato diritto. Questo Stato divenuto Impero si
dissolverà nel feudalesimo, con la liberazione del troppo costoso schiavo, al
fine della grande produzione e del commercio generale, e la molecolarizzazione
periferica dei poteri. Nel
campo germanico il popolo nomade si fisserà sulle terre del caduto o cadente
impero e lo Stato non sorgerà che come potere feudale disperso. Ricomparirà lo
Stato in questa Europa, dei due campi mediterraneo e nord-centrale, quando le
nazioni borghesi, soppressa come fu la schiavitù anche la servitù della gleba,
sostituiranno il potere della nobiltà, già menomato dallo Stato centrale
monarchico nazionale.
Che di diverso nel campo russo? Vagliati gli elementi
fisici di clima, distanze, comunicazioni, articolazioni tra mari, piani e
monti, gli elementi storici della fissazione di diversissime razze in turbinose
vicende di invasioni e stermini di popoli non nutriti dal terreno sterile, ne
sorge la precoce premessa al sorgere della macchina-Stato, che la leggenda dice
chiesto da genti senza pace non duecento ma mille anni fa al conquistatore ed
esploratore vichingo Rurik. Questo Stato politico e militare non si dissolve
nel feudalesimo; esso governa sui liberi mir che rende tributari; i nobili
autoctoni e di importazione non asserviranno i villaggi che in parallelo e
suppergiù in parità statistica (fino al 1861) con lo Stato (la Corona) e in
parte coi monasteri.
La conclusione dello schema, qui richiamato in modo
scarno, è che per ragioni tratte da soli elementi materiali e deterministi ben
si vede che in Russia il feudalesimo non fu mai antistatale, e fu un vero
feudalesimo di Stato; il che senza sorpresa ci fa vedere un capitalismo che
nasce statale e vince nella forma statale, «direttamente», senza la apparente
forma privata singola. Questa costituisce, in dottrina nostra, una variante
giuridico-politica, non sociale, perché l’avvento primo del capitalismo è
avvento della produzione sociale; che contro la società produttrice e
consumatrice si opponga, come nella dialettica teoria di Engels, la classe
dominante, o lo Stato, non è che espressione con parole diverse del medesimo
fattore storico.
Ogni comunismo delle genti primigenie, da quando
sorsero le classi, e con esse uno Stato estraneo e centrale alla comunità di
produttori, cessò di essere comunismo, e finì nella schiavitù, nella servitù
della gleba, o nella classica piccola proprietà dei liberi, a seconda dei
campi, ma nella lettura di una stessa scienza dell’umana storia.
Dal 1800 la formazione dall’alto di un’industria in
Russia, iniziata storicamente da lontano dagli zar guerrieri, uscendo di forza
dalle primissime forme di industria con servi, genera nella città il
proletariato salariato, nelle cui file la disastrosa riforma servile, creatrice
solo di pauperi, rovescia nuove armate di lavoro. Sorge il marxismo teorico con
grandi nomi, e grandissimo Giorgio Plechanov maestro di Lenin, e fa sua la
teoria della rivoluzione operaia conducendo una critica inesorabile del
populismo contadino. La nostra esposizione ha mostrato che in un lungo corso il
marxismo russo si libera delle stesse forme deteriori che per l’occidente
denunzia il capitolo finale del «Manifesto» de 1848. Il «marxismo legale» di
Struve, l’«economismo», le cento scuole contadine, populiste, libertarie, hanno
la portata del socialismo feudale, reazionario, borghese, piccolo-borghese, che
in lunghe battaglie per sempre Carlo Marx aveva sgominato. I marxisti russi si
raccolgono infine nel Partito Socialdemocratico, che ha per sua base la
dichiarazione di falsità della tesi: La rivoluzione russa ha una sua via
speciale, non avrà protagonista la borghesia né gli operai, ma solamente i
contadini. Ed infatti una rivoluzione contadina può darsi nella storia, ma
unicamente come controfigura della più bassa rivoluzione borghese.
Ma sulle prospettive di questa rivoluzione antifeudale,
che i contadini non faranno da soli, e che tanto meno - se la facessero -
diventerebbe per ciò non capitalista ma socialista, nasce ben presto nel
partito marxista una fondamentale divergenza.
La storia del movimento ci dice che il vecchio Engels,
come persona e capo politico, si adoperò a sanare una tale divergenza e perfino
quella verso i «socialisti rivoluzionari», scuola derivata dal populismo
agrario. Ne sono ovvi i motivi.
Tuttavia la versione di Lenin della prospettiva
storica, abbiamo il diritto di dire ed abbiamo dimostrato nella seconda parte
di Bologna («Partito proletario di classe ed attesa della duplice
rivoluzione»), è figlia primogenita della classica posizione
marx-engelsiana, e va data ad essa adesione al mille per mille.
Appariva chiaro, nell’epoca della grande polemica
1903-1912, e a cavallo del grandioso periodo rivoluzionario del 1905, che la
Russia del principio del 1900 non era ancora all’altezza della Germania 1850 in
cui Marx ed Engels avevano affermata la saldatura tra rivoluzione borghese ed
operaia, ove lo stato reazionario tedesco prussiano avesse vacillato. Se vile
fu allora definita la borghesia tedesca come forza classista e nazionale, non erano
certo nulle le sue tradizioni, dalla Riforma e prima, urbane, comunali, civili,
culturali; e non era sotto-valutabile l’eredità di preparazione storica
trasmessa al nascente proletariato, anche prima che la diffusione dell’industria
prendesse il ritmo travolgente della seconda metà del secolo, scontata dalla
immediata vicinanza ed influenza di Francia e Inghilterra.
In Russia, se fu quasi solo Trotsky a innamorarsi della
teoria della Rivoluzione permanente, fondata - non disprezzabile eredità
teorica e politica - ai tempi gloriosi della Lega comunista europea, i due
opposti punti di vista furono questi. Per i menscevichi la Rivoluzione che
avrebbe rovesciato lo zar avrebbe fondato una repubblica parlamentare e
borghese e dato un potente avvio al capitalismo. Pur battendosi per una tale
rivoluzione, il partito proletario in questa repubblica avrebbe lasciato
governare la borghesia divenendo un partito di opposizione, evidentemente
«legale». Sarebbe seguita una fase storica borghese, di tipo
europeo.
Ben diversa la visione di Lenin. In due parole, e
rimandando alle innumeri documentazioni fornite, la tesi è che la borghesia
russa non può da sola reggere il potere, e nemmeno la borghesia alleata ai
partiti contadini, senza soggiacere alla controrivoluzione feudale (e ridare
vita alla riserva reazionaria europea di cui ansiosamente da decenni si
invocava la fine). Non basta dunque rovesciare il potere zarista o contribuire
a rovesciarlo: occorre che il partito proletario prenda il potere. Non diverrà
un partito di opposizione, e nemmeno di governo parlamentare, ma nella
rivoluzione porrà il traguardo: Al potere, senza i partiti borghesi e contro di
essi! Al potere rivoluzionario, avendo per alleati i partiti contadini e anche
il menscevico, SE sul piano della esclusione borghese! Questa dittatura della
alleanza di operai e contadini si chiama democratica perché non servirà a
fabbricare socialismo (farneticamento populista) ma a scongiurare la
controrivoluzione dispotica e feudale; si chiama dittatura perché il potere
sarà preso nella lotta rivoluzionaria e denegato ai partiti borghesi: il suo
contenuto, in cento dichiarazioni di Lenin, è la guardia ai contadini per il
momento inevitabile in cui passeranno alla conservazione borghese e alla
resistenza al socialismo.
Questa dittatura governerà per accelerare la
trasformazione capitalistica del paese, e democratica, in stretto senso, dei
suoi tarlati ordinamenti, per attendere la rivoluzione socialista di occidente,
libera ormai dallo spettro che arrivino a Varsavia, a Vienna e Berlino, e
magari a Parigi, i cosacchi.
Questa tesi è stata valida per Lenin in tutta la sua
vita, è validissima per la storia di oggi ancora, dialetticamente vera sebbene
siano capovolte le vicende per cui si attendeva l’insorgere del proletariato di
Europa, e capovolta la teoria e la politica del potere dominante in Russia.
Il nostro svolgimento è diretto a distruggere questa
tesi: che la prima rivoluzione russa nel febbraio 1917 sia stata la rivoluzione
borghese, vinta dai socialisti; e che nella seconda di Ottobre sia stata
superata la vecchia formula bolscevica di andare al potere al solo scopo di
«fare la guardia alla democrazia e al capitalismo» fino alla rivoluzione
occidentale, per passare senz’altro ad una rivoluzione socialista integrale,
del livello che avrebbe potuto avere, poniamo, la rivoluzione tedesca se non
fosse stata schiacciata.
Noi dimostrammo che la rivoluzione di febbraio
rappresentò la formula menscevica, con ulteriore caduta di populisti e
socialdemocratici nell’opportunismo, per l’entrata nel governo provvisorio
borghese e per l’asservimento a questo dei Soviet operai, sorti come nel 1905
alla testa della lotta rivoluzionaria. La rivoluzione di Ottobre riportò alla
formula bolscevica: alleanza coi contadini, espulsione della borghesia dal
potere, rinvio del socialismo in Russia alla rivoluzione europea, sradicamento
dei mille residui feudali, il che, anche per i marxisti che denegano alla
«democrazia» ogni valore assoluto, si fa percorrendo rapidamente le fasi della
democrazia spinta a fondo: solo dopo la si butta sul serio via.
Nella parte già sviluppata in resoconto della riunione
di Napoli abbiamo voluto ribadire perché neghiamo che sia giusto dire che l’ottobre
fu rivoluzione borghese. Rivoluzione borghese è quella in cui la borghesia
governa, ben vero come classe nazionale e anche extra-nazionale e mondiale.
Abbiamo dato tre caratteri radicali della rivoluzione
bolscevica che la separano in principio da ogni rivoluzione borghese: li
ricordiamo in sunto:
Primo: condanna della guerra imperialista fin dal 1914,
condanna dei socialisti traditori che vi aderiscono, consegna del disfattismo
in ogni paese anche singolarmente, come sola via per il crollo del capitalismo.
Ogni rivoluzione borghese fu invece nazionale patriottica e guerresca, come gli
opportunisti russi tentarono di fare dopo il febbraio.
Secondo: liquidazione spietata ed extra-legale nella
lotta interna in Russia di tutti i partiti opportunisti anche contadini ed
operai, e loro messa fuori legge. Ciò seguì (con dialettica propria a quella
storica fase) allo scontato, nella teoria leniniana, rifiuto di quelle forze a
governare in forma dittatoriale senza e contro la borghesia; sicché, anche in
un quadro sociale in cui il socialismo mancava delle sue basi economiche, si
affermò il governo rivoluzionario e totalitario del solo partito del
proletariato: lezione di portata e di forza mondiale, colpo all’opportunismo
non minore di quello assestato al social-patriottismo dei rinnegati.
Terzo: Restaurazione della teoria dello Stato e della
rivoluzione secondo Marx, e della dittatura del proletariato come transizione
alla sparizione delle classi e dello Stato stesso; restaurazione della teoria
del partito di classe come stabilita in Marx e Lenin - contro la deviazione
operaista, e tradeunionista, o anche «demoproletaria» - per cui è solo il
partito che, senza consultazioni a tipo di truffa borghese, rappresenta la
classe e conduce la rivoluzione, lo Stato, l’abolizione successiva dello Stato.
Risultati di portata mondiale cui negli anni gloriosi che seguirono Ottobre si
affiancò la costruzione della nuova Internazionale e la sua denominazione di
Comunista.
Il richiamo di tutta la lotta dei marxisti radicali
allo scoppio della guerra non era solo indispensabile per la comprensione delle
fasi della rivoluzione in Russia, ma anche per stabilire l’esatto valore della
posizione di Lenin. Il dominante opportunismo stalinista di oggi, infatti, al
fine di attribuire a Lenin la falsa paternità della ipocrita formula: Si può e
deve costruire il socialismo in un solo paese, ha speculato sulla formula
leninista del disfattismo della guerra imperialista, che aveva ben altra
portata.
Tale formula non era nuova, e lo abbiamo provato con le
stesse citazioni che Lenin usa negli scritti, cui si è fatto ricorso, per
poggiarsi sulla autorità di Marx ed Engels.
Gli opportunisti dissero: Il partito socialista non può
non sostenere la guerra del suo paese, perché se si rifiuta può provocare l’invasione
da parte di un paese meno avanzato in cui il veto socialista non potesse
funzionare. Malgrado questo, disse Lenin, bisogna sabotare anche da soli e
unilateralmente: mentre l’esercito nemico avanza il proletariato disfattista
tenderà a prendere il potere ed attuerà misure rivoluzionarie. Ne seguirà o la
rivoluzione anche nell’altro paese, o una nuova guerra che sarà, quella sì,
guerra socialista e rivoluzionaria. Questo punto difficile fu sviluppato da
Lenin per reagire alla forma pacifista di avversione alla guerra, basata sulle
parole piccolo-borghesi di disarmo universale e pace generale, sul «siamo
contro tutte le guerre perché si sparge sangue», sulla predicazione del rifiuto
individuale al servizio militare, e così via. Il pacifismo, stabilì sulle orme
fedeli di Marx nelle sue tesi Lenin, è non meno controrivoluzionario del
nazionalismo: noi marxisti siamo stati per molte guerre e saremo quasi
certamente per future guerre: appoggiammo le guerre di liberazione e
sistemazione nazionale, dovremo sostenere le guerre rivoluzionarie tra paesi
avanzati oltre il capitalismo e paesi rimasti nel capitalismo o più indietro.
Avversiamo questa maledetta guerra del periodo imperialista e tutte le simili
future.
Questo
basilare insegnamento è vergognosamente falsato proprio da quelli che lo hanno
dimenticato, nelle più basse campagne d’oggi sulla possibilità della pace
universale, affermata da Marx e Lenin impossibile tra Stati capitalistici, e
sulla possibile convivenza ed alleanza perpetua tra Stati borghesi e
socialisti!
Con questo largo riferimento di fatti e di dati
documentati abbiamo potuto chiarificare le varie formule tra le quali si crea
la voluta orribile confusione.
La prima confusione è tra la formula «socialismo in un
solo paese» e «socialismo in un paese non capitalista», quindi «socialismo
nella sola Russia».
La formula marxista è che il socialismo è storicamente
possibile sulla base di due condizioni, necessarie entrambe. La prima è che la
produzione e la distribuzione si svolgano generalmente in forme capitalistica e
mercantile, ossia che vi sia largo sviluppo industriale, anche di aziende
agricole, e mercato nazionale generale. La seconda è che il proletariato e il
suo partito pervengano a rovesciare il potere borghese e ad assumere la
dittatura.
Date queste due condizioni, non si deve dire che è
possibile cominciare a costruire il socialismo, ma che le sue basi economiche
risultano già costruite, e si può e deve iniziare immediatamente a distruggere
i rapporti borghesi di produzione e di proprietà, pena la controrivoluzione.
Ove la condizione tecnico-economica del primo tipo
sicuramente esiste, nessun marxista ha mai affermato che la conquista del
potere politico da parte del partito proletario sia condizionata alla
simultaneità in tutti «i paesi civili», come scioccamente dice la formula
stalinista, o in un gruppo di essi. In date condizioni storiche di forza del
proletariato è ammissibile la conquista del potere politico in un solo paese. E
se la condizione di primo tipo esiste, come detto, ciò vuol dire che comincia
subito la trasformazione socialista, fatto distruttivo più che costruttivo, e
per cui nella avanzata Europa (e America) da molto tempo le forze produttive
sono bastevoli, anzi in eccesso.
Se invece parliamo di un paese in cui manca la
condizione prima di sviluppo produttivo e mercantile, allora la trasformazione
socialista non sarà possibile. Ciò non vuol dire che, in date condizioni
storiche e rapporti in forza, non sia possibile tentare ed attuare la conquista
proletaria del potere politico (Ottobre rosso) senza programma di
trasformazione socialista fino a quando la rivoluzione non guadagni alcuni
altri paesi che hanno la condizione prima, dello sviluppo economico.
Inoltre, nella situazione di una guerra imperialista
(che tale era per l’Europa e la Russia), ogni partito proletario deve condurre
l’azione disfattista interna, anche da solo, e se può fino alla conquista del
potere.
La tesi marxisticamente condannata non è dunque: Anche
in un solo paese è possibile la conquista proletaria del potere - e - Anche in
un solo paese di pieno capitalismo è possibile la trasformazione socialista. La
tesi condannata è che in un solo paese non capitalista sia possibile, con la
sola conquista del potere politico, la trasformazione socialista.
La falsa tesi stalinista si scrive: È possibile la
costruzione del socialismo (mala espressione per: trasformazione socialista)
anche in un paese solo, arretrato e feudale, come la Russia, senza l’appoggio
della trasformazione socialista di alcuni paesi capitalisti già sviluppati.
Lenin ha correttamente e da marxista ortodosso
enunciate le tesi: del disfattismo e del potere in un solo paese; delle misure
che «liberano» la trasformazione socialista del paese capitalista avanzato,
anche se ciò conduce ad una guerra, che sarà la guerra di classe. Con questo
non si è mai sognato di dire o scrivere: Si può nella sola Russia dare corso,
con il disfattismo della guerra e la conquista del potere senza la borghesia,
alla trasformazione della economia in socialista.
All’opposto, in quelle tesi del 1915, corroborate nei
famosi due articoli contro le ideologie degli Stati Uniti d’Europa e del
rifiuto di ogni guerra, è scritto ancora una volta che cosa succedeva in
Russia, dopo il disfattismo e la liquidazione della guerra, e dopo la conquista
del potere: la fondazione di una repubblica democratica, in tutte lettere.
Questo
falso colossale verrà più oltre meglio in luce.
A pochi mesi
dalla caduta del governo zarista in Russia vi era un governo provvisorio di
cadetti e socialisti rivoluzionari e menscevichi, e il Soviet dei deputati
operai e contadini aveva riconosciuto che un tale governo dovesse serbare il
potere fino alla convocazione di una assemblea costituente.
Questo
governo simpatizzava apertamente per quelli che erano stati gli alleati dello
zar nella guerra mondiale, era influenzato dall’appoggio delle borghesie
occidentali, che sole avevano dato a quella russa la forza di salire al
governo, si orientava per la continuazione della guerra antitedesca
«democratica e nazionale» e perfino non aveva levato la parola repubblicana
tendendo ad una monarchia costituzionale con un fratello dello zar!
Il partito
bolscevico non aveva partecipato, è vero, a un tale governo, ma non gli aveva
mosso nemmeno fiera opposizione, gli concedeva una benevola attesa, solo
invitandolo a fare opera per trattative di pace generale, e tanto meno aveva
svergognato gli opportunisti per il loro aggiogamento alla borghesia nazionale
ed estera e la loro svalutazione e esautorazione dei Soviet.
L’arrivo
di Lenin segna una fiera rampogna a queste posizioni del partito bolscevico e
dei suoi capi russi, tra cui Stalin e Kamenev in prima linea.
Con ampi
riferimenti che sono recenti e non riassumiamo, abbiamo provato che la spietata
messa in stato di accusa insita nelle tesi di Aprile non ha la portata: Avete
mancato di passare dalla rivoluzione democratica alla rivoluzione comunista che
oggi la guerra mette all’ordine del giorno.
Il contenuto della rampogna è ben altro: non è così
esteso, e solo ai poveri di spirito sembrò temerario e pazzesco: si limitò alla
rovente censura: Dove la teoria del partito vi segnava chiaramente la strada,
avete esitato e deviato! Invece di applicare la giusta delle «due tattiche
socialiste nella rivoluzione democratica», avete seguita quella menscevica, o
almeno ve ne siete fatti suggestionare, credendo nel famoso «valore assoluto»
della democrazia, che per noi è solo un obbligato ma contingente passaggio, un
ponte che alle nostre spalle dobbiamo bruciare. Avete violato l’insegnamento
sulla guerra: laddove questo stabilì che era imperialista e da sabotare da
tutte le parti, francese, tedesca, russa, ecc., avete fatto concessioni alla
politica che la caduta dello zar e la salita al potere dei borghesi ne abbiano
fatto una guerra giusta, e state per passare al «difesismo».
Le tesi di Lenin, se abbagliarono, ricostruirono tutta
la politica rivoluzionaria del partito: potenza non insita nell’uomo, per
eccezionale che fosse la macchina del suo cervello, ma nella preventiva teoria
internazionale e russa del partito, passata al vaglio di tremendi passi
storici.
Contro la guerra e disfattismo, tuttora. Contro il
governo provvisorio, denunziandolo subito come agente del capitale. Contro i suoi alleati
populisti-contadini e contro i menscevichi che hanno nei congressi condannata
non solo la presa del potere ma la partecipazione ad esso. Per il passaggio ai
Soviet di tutto il potere. Non lotta contro il Soviet, maggioritariamente
destro, ma penetrazione e conquista fino a smascherare i menscevichi e soci.
Non traguardo della Assemblea parlamentare, ma dittatura dei Soviet, ossia del
proletariato e dei contadini. Non la baggianata di proporre l’instaurazione del
socialismo, ma la preconizzazione del socialismo, che sarà dato alla Russia
solo dalla rivoluzione europea. Azione legale oggi, illegale ed insurrezionale
in domani non lontano. Immediata nazionalizzazione della terra, controllo
industriale, nuova Internazionale, e nome di Comunista al partito, per
distruggere internazionalmente la guerra e il capitale.
Pochi esempi esistono di un più preciso combaciare
degli avvenimenti con un tracciato che chiese la sua guida ad un possente
indefesso lavoro di decenni, in cui trova le sue fondamenta. Fu forse Lenin che
piegò gli eventi al suo piano geniale, o per i nemici diabolico, o non
piuttosto un debito immenso del movimento verso di lui sta nella affermazione
che la dottrina di parte deve guidarci le mosse, e non le opportunità e le
convenienze della speciale situazione che si va determinando e in cui,
guardando bene, si potrebbero, a credere dei gonzi e giusta il millantare di
ogni capo politicante, scorgere sottili fessure in cui insinuare la pallida
leva dell’azione? Tutti levarono contro Lenin l’incanata, gli rinfacciarono il
fresco arrivo e l’omesso studio dei fatti nuovi e di una Russia originale ed
imprevista. Ma Lenin scese dal treno, entrò nella riunione, e parlò «ad occhi
chiusi», secondo una inflessibile linea: dopo gli ascoltatori seppero che i
ciechi erano, nella quasi totalità, proprio loro.
Poche settimane dopo, alla conferenza di Aprile, Lenin
ripete i suoi concetti e riscrive più diffuse le sue formule lapidarie,
precisando il compito futuro: i lavoratori, il partito si sentono messi sulla
via sicura e avanzano in fronte compatto.
Presto gli eventi mostrarono quale rovina avrebbe
ingoiato la rivoluzione senza quel colpo deciso di barra.
Si celebra in tutta la Russia libera il Primo Maggio, e
in quella data il ministro degli esteri Miliukov impegna il popolo russo nella
promessa agli alleati di continuare la guerra. Il 3 maggio i bolscevichi con
dimostrazioni armate protestano contro la nota Miliukov. Il 14 maggio il Soviet
vota ancora per il governo di coalizione. Il 15 si dimette Miliukov. Il 16
arriva Trotsky e avanti al Soviet fa con un discorso adesione totale alla
politica di Lenin, che il 17 in una lettera aperta al Congresso dei Contadini
incita alla guerra spietata contro la borghesia imperialista e i
«social-compromessisti» che la affiancano. Viene formato il governo di
coalizione, col socialrivoluzionario di destra Kerensky ministro della guerra.
Questi il 20 giugno ordina l’offensiva al fronte: gli opportunisti inscenano
dimostrazioni contro Kerensky e la guerra. Mentre il 19 luglio l’offensiva al
fronte fallisce e i germanici irrompono da Tarnopol, scoppia a Pietrogrado l’insurrezione
armata, sebbene i bolscevichi tentino rinviarla. Lenin e Zinoviev sono braccati
dalla polizia di Kerensky, divenuto primo ministro, come agenti tedeschi. Molti
capi bolscevichi, tra cui Trotsky, arrestati: il partito ad opera di Stalin
nasconde Lenin.
In agosto
il sesto Congresso del partito bolscevico, in assenza di molti compagni in
posizione illegale, elegge il nuovo comitato centrale (i 32 di Ottobre) e
conferma totalmente la linea delle Tesi di Aprile.
Il 31 agosto il fronte si spezza e cade Riga. Kornilov
che aveva sostituito Brusilov alla testa dell’esercito viene silurato da
Kerensky che teme di avere suscitato le forze reazionarie: Kornilov muove su
Pietrogrado. Reazione delle masse di tutti i partiti operai, predominio nella
lotta delle forze bolsceviche che hanno offerto tempestivamente il fronte
unico. Kornilov è arrestato al quartier generale, i capi bolscevichi
scarcerati. Il 18 settembre al Soviet (il piano procede matematicamente) passa
la prima risoluzione della frazione bolscevica: il presidium menscevico-esserre
(socialisti-rivoluzionari) si dimette.
24 settembre: per la presidenza del Soviet della
capitale, Trotsky butta giù di scanno il famigerato menscevico Cheidze. Mentre
il Soviet invoca il Congresso Panrusso dei Soviet, una conferenza democratica,
diffidata dai bolscevichi, elegge un Consiglio della Repubblica o
Preparlamento. Ne escono subito bolscevichi e socialrivoluzionari di sinistra,
che stringono un patto di azione.
Il 22 ottobre il Soviet elegge un comitato militare, presieduto
da Trotsky. Il 23 ottobre il Comitato Centrale del partito bolscevico vota l’insurrezione.
Propone Lenin, votano contro Zinoviev e Kamenev. Il 29 ottobre il Comitato
deplora i due che rispondono sulla stampa. I menscevichi fanno posporre dal 2
al 7 novembre il Congresso Panrusso dei Soviet. Al Soviet di Pietrogrado
aderiscono le forze della fortezza di San Pietro e Paolo.
Il 7 novembre il governo di Kerensky, che si vede
perduto, ordina l’arresto del Comitato Militare del Soviet: è la fine; cadrà dopo
due giorni di battaglia nelle vie. Lenin appare al Congresso
Panrusso. Il governo è arrestato.
Nella seconda tappa la Rivoluzione ha vinto, per la
strada che la potenza della dottrina rivoluzionaria aveva segnato.
Realizzata il 25 ottobre - 7 novembre 1917 la conquista
del potere politico con l’abbattimento del Governo Provvisorio di coalizione
borghese-menscevica-populista, si apre in tutta la sua ampiezza la questione
dei compiti di questa Rivoluzione, nuova ed originale nella storia. Piacerà
agli storici idealisti identificare la Rivoluzione con un borghesissimo «colpo
di telefono» di Lenin, ma noi non ci perderemo dietro a tali banalità, cui
potrebbe seguire l’ipotesi oggi data in pasto ai milioni dì cominformisti, di
altro colpo di telefono di Stalin: Si costruisca il socialismo! I compiti una
rivoluzione li pone, non li riceve. Nessuno in simile momento pensa a «porre in
vigore il comunismo». La serie storica è ben altra.
Distingueremo per chiarezza di esposizione (qui per
sommi capi) i compiti politici, e più militari-politici, e i successivi compiti
sociali-economici.
Un primo compito è la integrazione, il completamento
della Rivoluzione. Come rapporto di forze politiche la Rivoluzione è ciò che ha
due sole eventualità: Niente, o Tutto. Un secondo compito (tutti nella realtà
si affacciano accavallati, inseparabili) è la lotta per annientare la guerra
internazionale, la guerra nazionale. Un terzo è ributtare l’onda feroce di
venti controrivoluzioni: la guerra civile. Questi compiti, non ancora economici
in senso di massima, prenderanno: un primo anno i primi due; almeno altri due
anni col primo, il terzo.
Quando il Partito comunista va al potere, dopo la fase
di conquista pacifica del Soviet, e dopo quella della insurrezione armata,
partiti borghesi e social-opportunisti sono buttati fuori legge, ma restano due
cose: il blocco di governo coi socialrivoluzionari di sinistra; le elezioni in
corso per l’Assemblea costituente a cui, teoricamente, occorrerebbe attribuire
il potere. La prima a sparire è questa seconda posizione spuria. «Per fortuna»
si è in minoranza nella Costituente, e il 19 gennaio 1918 Lenin deve ordinare
(la sua forza è qui, ed è forza di partito: non deve per fare ciò superare nessun
ostacolo teoretico) di farla buttare fuori dai piedi da un plotone di marinai
rossi. Il Terzo Congresso Panrusso dei Soviet pochi giorni dopo si dichiara
unico depositario del potere, nomina il permanente Comitato Esecutivo (non è
Parlamento né Antiparlamento: è la storica negazione, la fine dei Parlamenti,
perché è la dittatura di classe contro la finzione della giostra interclassi) e
questo designa il Consiglio dei Commissari del Popolo, che è il governo. La
parola Popolo ci prova che non si ignora non trattarsi di rivoluzione
proletaria pura anche socialmente.
In questi tre organi sono anche gli esserre di
sinistra. Li spazzerà via (ancora una volta passo non contraddetto né
imbarazzante in teoria, imposto non da capi ma dalla storia) solo il decorso
del secondo compito: distruzione della guerra nazionale.
Dovendo seguire l’alta funzione dottrina-storia, non è
di rigore la cronologia. Dopo Brest-Litovsk (di cui subito), gli esserre, che
erano l’espressione del blocco contadino con la rivoluzione, fino ad allora,
rompono duramente: nel marzo 1918 erano usciti dal governo, nel luglio
denunziano i bolscevichi come nemici, assassinano Mirbach ambasciatore tedesco
per scatenare la guerra antitedesca nazionale, ed insorgono in armi a Mosca,
mentre da altri fronti premono i tedeschi e le prime armate
controrivoluzionarie. il 30 agosto revolverano Lenin, uccidono il grande
compagno Uritsky.
È l’ora in cui, e crepino i fautori delle foglie di
fico, la Rivoluzione finalmente diventa tutta se stessa: la Dittatura di
Partito si integra in Terrore di Partito. Prima che i tanti nemici segnassero
altri vantaggi, il 17 luglio era già stata soppressa la famiglia imperiale.
Urla allo scandalo, dimentica delle sue origini, la borghesia mondiale (coi
suoi manutengoli kautskiani), per la fondazione della polizia rossa, il sistema
degli ostaggi di classe e delle rappresaglie sugli «innocenti». Ma vi sono, per
il marxismo, colpevoli nella storia? No, come non vi sono benemeriti
e taumaturghi.
Le grandi questioni della Dittatura e del Terrore sono
risolte, ancora una volta, come ogni marxista sapeva. L’entusiasmo dei
rivoluzionari di tutto il mondo sale come una marea.
Da Aprile ad Ottobre i bolscevichi hanno messo avanti
per spiegare la loro conseguente, poderosa formula storica della rivoluzione
russa, la situazione internazionale, la guerra imperialistica. Si tratta di una
rivoluzione borghese antifeudale; che interessi il proletariato si sa dall’abc
1848. In quella situazione di capitalismo nascente (il che, in determinismo
storico, vale socialmente utile, benefico, incrementatore - insostituibile - di
produttività del lavoro e intensità di consumi, propulsore in avanti delle
capacità proletarie di classe) vi era aperta alleanza, lotta comune,
solidarietà, oltre che al rovesciamento della servitù feudale e dell’assolutismo,
anche alla fondazione dello stato nazionale e alle guerre con tale fine. Al
tempo della rivoluzione russa, nel mondo è un capitalismo parassitario, svolto
fino a divenire non impulso, ma impaccio alla economia produttiva, generatore
di guerre non di sistemazione in forme moderne migliori, ma di puro
brigantaggio sfruttatore.
In questo caso bisogna lavorare anche ad una
rivoluzione antidispotica che debba restare nella fase capitalistica, ma non vi
può essere un’alleanza con la guerra della borghesia, una solidarietà che non
sia solo in guerra civile (antizarista) ma in guerra estera. In forma cruda,
non ci stanchiamo di dirlo, il proletariato si addossa di fare la rivoluzione
borghese, si addossa il pilotaggio in questa del contadiname, ma non si allea
coi partiti borghesi, tende a prendere tutto il potere contro la borghesia
locale, ogni suo alleato opportunista, e i suoi sodali internazionali.
Il bolscevismo assolve questo duro impegno, per quanto
sia tremenda la posta. Un breve invito ai negoziati mondiali; gli alleati
tacciono: subito l’offerta unilaterale ai tedeschi, che urgono alla frontiera.
Prima delegazione Joffe nel dicembre 1917. Condizioni
inaccettabili. Seconda delegazione Trotsky nel gennaio 1918. Dure condizioni,
che comportano annessioni di popoli slavi. Tre formule: Lenin (nemico feroce
delle annessioni attive): accettare, e firmare la pace; Bucharin: guerra
rivoluzionaria ai tedeschi; Trotsky: né pace né guerra, non firmare. Il
Congresso dei Soviet è per questa tesi. La delegazione si ritira senza firmare
trattati. L’esercito tedesco si rovescia in avanti. Al Comitato Centrale, Trotsky
ventila l’appello agli alleati per aiuti militari. Il 23 febbraio Berlino detta
un ultimatum aggravato: al C.C., 7 per Lenin (accettazione), 4 per Bucharin
(rifiuto), che si dimettono, 4 astenuti con Trotsky. 3 marzo: firma del
trattato. Il Congresso del partito approva condannando i «comunisti di
sinistra» di Bucharin: come detto, il partito comunista rompe con gli esserre,
ultimi alleati.
Il Partito è solo. La guerra è distrutta.
Basti questo cenno di così grande svolta. Notiamo solo
che la sinistra rivoluzionaria del partito socialista italiano fece sue tutte
le posizioni di Ottobre: conquista del potere, dittatura, dispersione della
Costituente, rottura con i S.R., strategia terrorista; basterebbe disporre di
una serie dell’«Avanguardia» dei giovani socialisti, con i commenti, che
diremmo eccitati, settimana a settimana. Nell’«Avanti!» un articolo
delle stesse origini, incondizionatamente per la tesi di Lenin: «La Rivoluzione
russa in una fase decisiva» diretto a combattere le incertezze dei compagni che
credevano la posizione troppo destra, conciliante.
Ed un solo commento a tanta distanza: Trotsky viene
accusato oggi di essere allora stato un «agente dell’imperialismo tedesco».
Evidentemente all’onore di questa rancida censura borghese, nota a tutti i
rivoluzionari di quel tempo, era Lenin che aveva il maggiore diritto! Ma egli
aveva visto anticipatamente l’effetto sulle ulteriori vicende e sul crollo
tedesco, che non poteva seguire se non fosse stata resa evidente la antitetica
posizione dell’imperialismo germanico e della rivoluzione russa: contro la
quale gli imperialismi dell’altro campo allo stesso tempo si avventarono.
Segue un’altra tremenda fase di lotte, scontri, guerre
guerreggiate per difendere il conquistato potere. Né le sole difficoltà sono
quelle militari nel senso tecnico: l’economia, la produzione, vanno decadendo
sempre più, si va più giù del disastroso livello del tempo zarista, di quello
del tempo del governo provvisorio: carestia ed epidemia in grandi territori,
fame nelle città, mancanza di armi, munizioni, divise e tutto il resto.
Basti qui lo scarno elenco dei fronti di attacco
controrivoluzionario e di contrattacco bolscevico.
Già il Terzo Congresso in gennaio 1918 si dichiara in
guerra con la Rada ucraina, legata ai tedeschi, e le forze dei generali:
Alexeiev (Sudest), Kaledin (Don), Kornilov (Kuban). Ma altri fronti
«scoppiano». Aprile: giapponesi a Vladivostok. Maggio:
avanzata di Mannerheim in Finlandia. Rivolta dei cecoslovacchi sul Volga. Giugno: i
Bianchi (zaristi) minacciano Zarizin. Agosto: gli alleati sbarcano ad
Arcangelo. Gli
inglesi marciano traverso la Persia su Bakù. I Bianchi a Jassy in Romania
proclamano il generale Denikin dittatore della Russia. Kolciak prende il potere
negli Urali, rovesciando il «governo della Costituente», borghese-opportunista.
Dicembre: i francesi a Odessa.
Il 1919 sarà l’anno dei contrattacchi. Già dopo l’armistizio
e la caduta della monarchia tedesca i bolscevichi annullano il trattato di
Brest e abbattono in Ucraina lo hetman Skroropadsky, filo-germanico.
In marzo 1919 Kolciak ancora avanza passando gli Urali.
I francesi salgono da Odessa: ma in aprile la evacuano. Maggio: l’esercito
rosso ributta Kolciak, ma intanto da occidente Judenic, creatura degli inglesi,
minaccia Pietrogrado. Ne è ricacciato, ma Denikin prende Charkov in Ucraina e
in settembre è a Kiev. In ottobre occupa Orel e punta
verso Mosca. Ma il 21 ottobre i rossi battono Judenic a Pulkovo, e Denikin ad
Orel. In
novembre una grande offensiva travolge Kolciak oltre gli Urali; in dicembre le
tre armate della controrivoluzione sono in dissoluzione, rastrellate con
energia e senza quartiere. Nel febbraio 1920 Kolciak,
consegnato dai francesi, viene giustiziato.
Ma il 1920 è l’anno della guerra russo-polacca, che
suscitò invano tante illusioni. Estonia, Lituania e Polonia, sostenute da
inglesi e francesi, si muovono per invadere la Russia: solo la prima accetta la
pace. In maggio al sud il barone Wrangel forma una nuova armata bianca, dopo il
rovescio di Denikin, e avanza dalla Crimea. In giugno
è ributtata l’offensiva polacca. Tukacevsky conduce i rossi a Vilno, a Brest e
sotto Varsavia, ma la manovra difensiva guidata dal generale francese Weygand
spezza il cerchio rosso, e nel settembre, fallito il piano di puntare al cuore
d’Europa, si tratta la pace con la Polonia. In novembre anche Wrangel è
schiacciato. La
Georgia, l’Armenia sono ormai rosse. La guerra civile è finita: in marzo 1921
scoppia una rivolta della guarnigione di Kronstadt, soffocata rapidamente, e le
cui origini non sono ancora oggi chiare. La Russia tutta, ma dopo oltre quattro
anni dalla vittoria di Ottobre, è finalmente controllata dal partito comunista.
Fino ad allora la domanda: che deve fare il partito
giunto ai potere? ha in fondo avuto una sola risposta: combattere per non
perderlo!
Benché il tema, il cui svolgimento è qui riassunto, ci
urga verso le questioni di struttura economica, resta ancora un fondamentale
aspetto politico della grande vicenda, e riguarda l’Internazionale proletaria.
In sostanza non vi era «nulla da fare» nel trasformare
socialmente la Russia, perché il guerreggiare non ne dava il tempo, e perché si
sapeva già quel che si dovesse fare, al di là dall’assistere al germinare di
forme capitalistiche liberate - dal proletariato - da feudali pastoie: si
doveva fare leva sul moto del proletariato estero, per la liquidazione della
guerra, per la rivoluzione socialista. Punto centrale questo della prospettiva
di Lenin, identificato con quello dello scioglimento della Russia dall’ingranaggio
imperialista.
Moti contro la guerra a dispetto del tradimento di
tanti capi socialisti non erano mancati in tutte le nazioni di Europa, e le
vicende della fine della guerra li facevano a tutti presentire più vasti.
Purtroppo la rivoluzione non può sorgere da sola stanchezza ed esasperazione,
ma ha bisogno della difesa della linea continua di classe, che il tradimento
del 1914 aveva su quasi tutto il fronte mondiale spezzata.
Gli episodi più rilevanti del dopoguerra restarono
quelli del moto spartachiano fra il 1918 e il 1919 in Germania schiacciato dal
governo della neonata repubblica borghese-socialdemocratica, delle grandi
azioni di massa in Italia nel 1919 e 1920, affogate dall’orgia demoparlamentare
cui accedettero anche i socialisti che si vantavano di non aver accettata la
guerra, dei caduchi tentativi in Ungheria e in Baviera, che dopo brevi successi
cedettero alla repressione borghese.
L’Internazionale Comunista invocata fin dal 1914 da
Lenin fu fondata nel primo congresso di Mosca del 2-19 marzo 1919. Fu
consolidata nel secondo del 21 luglio - 6 agosto 1920, che ne definì la base
teorica ed organizzativa, forse già in ritardo sull’onda rivoluzionaria. Da
questo congresso in poi fu sempre più evidente che malgrado la grande vittoria
di Russia l’opportunismo di occidente aveva ancora notevole presa sulla classe
operaia e che la malattia del 1914 non poteva avere così rapida guarigione. Le
questioni dell’attitudine da prendere davanti a questa situazione, e della
divergenza che sorse con gruppi di sinistra, e specialmente col Partito
Comunista d’Italia fondato nel gennaio 1921, sarà trattata in prossimo rapporto
ad altra nostra riunione, sulla base della notevole documentazione di cui si
dispone; e si
porrà in evidenza come la nostra totale adesione alla prospettiva di Lenin e
dei russi di allora sulle vie della rivoluzione in Russia divenne aperto
dissenso circa la strategia della rivoluzione europea, che non doveva, per
evidenti ragioni, ricalcare le stesse vie di incitamento a classi e partiti non
proletari, altro essendo il grado di sviluppo delle forme sociali - e con la
denunzia di pericoli di degenerazione rivoluzionaria che purtroppo il futuro
doveva confermare.
Oggi si vuole, prima di passare alla parte di natura
economico-sociale, e nelle tre fasi in cui si suole considerarla, ricordare
ancora quale valutazione seguì il comunismo mondiale, passato il primo
dopoguerra, davanti ai quesiti: Quale il corso della rivoluzione
internazionale? Ci attende una lunga stabilizzazione del sistema capitalistico?
Quale il compito in tal caso del partito e del potere
rosso?
Sorse a tale svolto il problema che oggi si discute.
Fino al 1924 sappiamo tutti, malgrado falsi sistematicamente organizzati, che
si domandava solo come si potesse suscitare la rivoluzione tedesca e
occidentale. Ma è dal 1926 che urge il problema della condotta da tenere nell’ipotesi
che il sollevarsi in Europa della classe operaia, invano atteso per ben nove
anni, dovesse mancare.
Lo scontro delle opinioni su questo terreno riuscì particolarmente suggestivo nella riunione dell’Esecutivo allargato dalla Internazionale che ebbe luogo nel novembre-dicembre del 1926, successiva a quella del febbraio-marzo; e nella relazione ci siamo soffermati su tal punto; prima di trattare della società russa sotto il profilo economico, dei decorsi che presentò e presenta; poiché il dibattito è lo stesso di oggi, i problemi furono chiaramente posti - ed è soltanto oggi molto più facile per tutti verificare la conferma dell’impostazione marxista integrale, ed ortodossa.
Faremo uso - a suo luogo più largamente - di tre
discorsi: Stalin, Trotsky, Zinoviev, e di un quarto di eco pedissequa, ma
stranamente espressivo, dell’italiano Ercoli. È noto che le divergenze russe
erano cominciate prima: già al tempo di Lenin vi era la opposizione operaia;
dal 1924 era ormai in palese opposizione Trotsky, ma la sua voce non era
passata dai congressi di partito a quello internazionale: lo battevano
fieramente, legati a Stalin, Zinoviev e Kamenev. Al 1926 Zinoviev e Kamenev
erano passati all’opposizione: chi ben conosceva le cose russe li metteva fin
dal febbraio insieme a Trotsky, malgrado le recenti violente polemiche. Ma
questa era la prima volta che si discuteva a scena aperta la questione russa,
che era pure evidentemente la più alta questione del comunismo mondiale! A febbraio
era stata strozzata. Per
la prima volta si pone la questione: Dato che la rivoluzione europea non è
venuta, diamoci a rendere socialista la Russia. E la formula di Stalin.
Bucharin, che capirà più tardi, e sempre troppo tardi, è con lui.
Il primo dissenso è sui fatti: fino al 1924, fino a che
Lenin è stato vivo, questa divergenza non è esistita: tutti erano dell’avviso
che il compito era mantenere il potere bolscevico e affrettare la rivoluzione
europea e non vedevano via per arrivare al «socialismo» in Russia diversa da
questa. Stalin e i suoi invece sostengono, come già sappiamo, che la tesi del
«socialismo in un paese solo» - come essi malamente enunciano la pretesa di
«socialismo nella Russia sola» - sarebbe stata enunciata da Lenin nel 1915 e
nel 1917, e varie volte dopo l’Ottobre.
Il contraddittorio è pieno e potente. Stalin avanza la
sua tesi ancora con prudenza. Trotsky non poté parlare fino alla fine, perse
tempo nella difesa da noti attacchi personali, fu poi interrotto per aver
consumato il tempo. Resta il discorso di Zinoviev, completo e teoricamente
impeccabile. Per la prima volta il conciliante, l’accomodante Zinoviev sente
che si è troppo concesso, e ritorna da forte marxista sul piano rivoluzionario
dei principi, che enuncia senza esitare e con dimostrazione efficientissima.
Egli chiuderà col dire: Non sono con voi, maggioranza; non posso accettare la
vostra linea, liberatemi dalla carica di Presidente dell’Internazionale, tenuta
tanti anni. Questo discorso è la migliore cosa del vecchio compagno di Lenin:
egli si pentirà, nella forma, più oltre; poi morrà per la sua linea di
opposizione, e al suo fianco, irriducibile imputato, sarà l’altro marxista
Bucharin che - qui - fieramente lo avversa.
Stalin. Pone la questione della edificazione del
socialismo sulla base delle sole forze interne dell’Unione Sovietica. Poi
chiede che significa questo; e spiega: Significa la vittoria delle forze
proletarie sulla borghesia russa! Se questo non fosse possibile, afferma,
dovremmo lasciare il potere e divenire un movimento di opposizione. Abbiamo lo
spostamento completo della questione economica al piano politico. La vittoria politica, dice Stalin,
con la dittatura del proletariato l’abbiamo, ossia abbiamo la base politica per
il cammino verso il socialismo. Dunque possiamo ora «creare una base economica
del socialismo, le nuove fondamenta economiche per l’edificazione del
socialismo».
Fino a questo punto Stalin domina la sua conversione
teorica. Lenin aveva definito sciocchezza la «costruzione del socialismo».
Stalin parla di edificare non il socialismo, ma le sue basi economiche. La
formula era ancora accettabile.
Perché in che consiste la base economica del
socialismo? Semplice: nel capitalismo industriale.
Per passare oltre: noi neghiamo che il socialismo si
edifichi e che possa sorgere in Russia senza la rivoluzione socialista
internazionale. Noi non neghiamo che si possa edificare in Russia la base
economica, che vi mancava prima, per il futuro socialismo: ossia l’industria
capitalista. In Russia, appunto, si sta costruendo capitalismo, il
che è chiaro e logico, ed è anche nel senso storico fatto rivoluzionario. Ma tutto andrebbe bene se non si
pretendesse che i rapporti economico-sociali sorti dal 1926 ad oggi siano
propri di una società socialista.
Zinoviev, cui si unisce con molta chiarezza e vigore
Kamenev. La sua documentazione, soprattutto basata su Lenin, che prima del 1924
nessuno aveva prevista la integrale trasformazione socialista nella sola Russia
è definitiva. Egli dimostra a Stalin che anche lui così ragionava. La sua
ricostruzione, su Marx, Engels e Lenin, delle tesi sulla internazionalità della
rivoluzione socialista e sull’ineguale sviluppo del capitalismo nel mondo, è in
tutta linea teorica quella da noi fin qui svolta, ossia quella unica
proponibile. La questione contadina è finalmente da lui impostata in tutta la
sua chiarezza. Alleanza del proletariato col contadino nella rivoluzione russa
è altra cosa che utilizzazione del contadino a fini socialisti. Egli poi
luminosamente rivendica tale compito al partito della classe operaia salariata
e dimostra di avere sempre identificata la dittatura di classe con quella del
partito, ributtando le accuse di liberalismo organizzativo e frazionismo. Non
meno deciso è sulla questione del pessimismo o ottimismo sulla rivoluzione
mondiale: finalmente la sua posizione diventa quella che tante volte invano gli
presentammo: il modo di dirigersi da rivoluzionari non dipende dalle
situazioni, non si deforma secondo il vento.
Trotsky. li ancora più decisa, in un discorso non per
sua colpa incompleto, la sua prospettiva sulla rivoluzione socialista e la sua
confutazione del dozzinale espediente polemico di Stalin: Allora lasciamo il
potere.
Noi non ammettiamo una stabilizzazione del capitalismo
che come onda precaria inserita tra le crisi inevitabili, e crediamo nel suo
crollo. A quale distanza? Lo abbiamo atteso dal 1917 al 1926 quando sembrava
più vicino di ora. Il partito proletario in Russia, pur non dissimulandosi che
da solo non può arrivare alla società socialista, difende il potere
rivoluzionario, e può se occorre difenderlo per altri decenni, lottando contro
le forze della borghesia mondiale e contro i suoi tentativi di riprendere il
potere in Russia. Egli pone un limite di 50 anni, facendo coraggiosamente
ridere i coboldi di quella maggioranza.
Nell’esposizione qui riassunta il relatore sviluppò
questo dato, illustrando il difficile punto della previsione storica. Osò dire
che la terza ondata controrivoluzionaria era allora giustamente scontata, che
trent’anni da quel dibattito sono passati, e che varie altre nostre induzioni,
che forse molti credono non convenisse arrischiare, collimano in una data sul
1975 per una terza guerra universale, e per il nuovo corso rivoluzionario
proletario. Ciò intona col lungo mezzo secolo del discorso di Trotsky.
Per finire. L’elaborato commento di questa discussione
1926, tutto volto a sostenere la scottante tesi che possa darsi opera
scientifica marxista del futuro, si fermò sul discorso di Ercoli, che volle
dare all’imbavagliato Leone il colpo di grazia. Egli investì il pessimismo
opportunista, affermò che essi - i «centristi», diciamo noi - avevano ben
maggior fretta, e sarebbero molto prima ritornati sullo scatenamento
intransigente della rivoluzione europea. Poiché Ercoli è Togliatti, sarà
divertente il confronto di quelle parole con le sue posizioni di oggi, nel
fatto e nella chiacchiera; la prova che egli vede il corso della società
italiana ed europea, oggi che Trotsky è stato fatto fuori, refrattario come
allora, con una misura non di 50 ma di 500 anni, ponendo a una distanza di anni
semplicemente l’ingresso del suo partito in un governo coi clericali, e
promettendo per il mezzo secolo et ultra il rispetto integrale della
Costituzione borghese.
Dal 1917 al 1921 la canna della carabina non cessò di
scottare nelle mani. Quale fu la formula economica? Dovremmo ricordare episodi
innumeri di quasi 40 anni, per sorreggere la indefessa campagna contro la
insidiosa pretesa che fossimo andati in Russia a vedere cosa sia il socialismo.
Il marxista non rifà Tommaso che volle infilare le dita nella ferita al
costato. Sappiamo cosa sarà il socialismo, senza averlo visto, e senza la
pretesa di vederlo. Fu svolto ancora, alla riunione, un simile tema: non è un
biglietto per il cinema, la tessera di militante; non si ridanno i soldi per
spettacolo mancato.
Tuttavia era bello a Mosca sentire che non si pagava il
pane, il tram, il treno, non vedere negozi veri e propri (oggi scintillano di
luci più che a New York), salvo qualche banchetto di mele, sentire scherzare
tra limone e milione, che si dicono suppergiù come da noi, sentire che non si
pagava la casa (contro Engels!) ed altre misure. Questa situazione è stata più
volte descritta come comunismo di guerra, con evidente allusione alla guerra
civile, dato che quella mondiale era finita dopo pochi mesi, per la Russia, e
qui ci si riferisce a tutto il 1920.
Si intende forse dire, con l’espressione comunismo di
guerra, che si fosse ritenuto possibile adottare subito misure comuniste, e
solo ad un certo punto si sia constatato che si trattava di una anticipazione
illusoria, e passata la prima esaltazione si sia cominciato a meglio definire
lo sfondo economico della situazione? Mai più: il comunismo di guerra non è
fatto originale di Russia o del 1917: è universale e vecchio: vigeva in ogni
città assediata: come il mantenimento dell’esercito, specie moderno, si fa con
formula non di economia individuale, ma collettiva, e il soldato che nel medioevo
aveva un soldo, nel tempo borghese non ha salario, così in guerra nelle città
assediate il mercato è sostituito dal razionamento: i topi catturati nelle
fogne di Parigi nel 1870-71 non si quotavano in borsa, ma si spartivano in
natura. Comunismo di guerra: non perché al potere fossero proprio i comunisti,
e smaniassero di attuare Marx o Moro, ma perché la Russia, ridotta in certo
momento ad un cerchio di duecento chilometri di diametro attorno a Mosca, era
come una città assediata. Soldati e cittadini dovevano mangiare: gruppi di
operai comunisti o di militi rossi andavano in campagna e prendevano il grano
dove si trovava, lasciando o meno una carta. Hitler nell’ultima guerra ha fatto
qualcosa di non molto diverso, e in forma più ipocrita l’hanno fatto gli
americani, stampando carta moneta. La formula: la guerre est la guerre, vale l’altra:
je prends mon bien où je le trouve.
Questo periodo, sia a Napoli che a Genova, fu trattato
sulla scorta del famoso opuscolo di Lenin sull’imposta in natura del 1921, e di
un discorso di Trotsky sulla NEP e sul capitalismo di Stato.
Questi e altri testi stanno a provare che non vi fu,
come può sembrare al solito dalla dizione popolare e abbreviata, nessuna «rettifica
di tiro», ma si applicarono dati e norme noti e scontati da tempo.
Passare dalla requisizione con forza armata del grano
alla tassazione di una aliquota che i contadini devono versare allo Stato,
esprime solo la differenza contingente tra la situazione in cui lo Stato
provvede essenzialmente ad una difesa militare anche contro i nemici di classe
del contadino che lavora, semina e raccoglie, ma le urgenze di guerra non danno
il tempo di tante spiegazioni; ed una di minore emergenza in cui lo Stato rivoluzionario
comincia a far capire al contadino che da un lato lo paga anche con servizi
civili e pubblici, che gli occorrono, dall’altro può lasciarlo libero di
vendere alla luce del sole quanto non è suo consumo diretto, come faceva prima
alla insopprimibile rete degli «speculanti». Insopprimibile, per una
rivoluzione economica non socialista, come quella era.
Lenin, paziente quanto esplicito, disegna lo storico
quadro, anzitutto, con parole che riporta da un suo scritto del 1918, dunque
immediatamente successivo alla presa del potere. Che cosa è ora socialmente la
Russia? Ci siamo.
Al posto della completa analisi bastano ora pochi
cenni. La solita spiegazione agli impazienti. «Repubblica Socialista Sovietica»
significa la decisione del potere sovietico di realizzare il passaggio al
socialismo e non significa affatto che siano socialisti gli ordinamenti
attuali. (Oggi, è chiaro, non significa più neanche la prima cosa).
Se passassimo al capitalismo di Stato sarebbe un gran
balzo avanti, pur non essendo ancora affatto il socialismo. Poi la famosa serie
di elementi sociali del macrocosmo russo: 1. Economia contadina
patriarcale-naturale. 2. Piccola produzione agricola mercantile. 3. Capitalismo
privato. 4. Capitalismo di Stato. 5. Socialismo. La lotta nel 1921, Lenin
stabilisce, non è tra i gradini 4 e 5, ma tra 2 e 3 contro 4 e 5. Il
contadiname sta col capitalismo privato contro il capitalismo statale e il
socialismo.
Vi è poi il chiarimento della natura del capitalismo di
Stato, con l’esempio della Germania. Se noi sommassimo, Lenin dice, il potere
politico che abbiamo in Russia, con lo sviluppato capitalismo di Stato tedesco,
allora solo saremmo sulla via del socialismo. Ma se ciò non è, il nostro
traguardo è solo un capitalismo di Stato, che arrivi (lunga strada) a
somigliare al tedesco. Egli dimostra di avere scritto tanto nel 1918.
Lo Stato rivoluzionario russo non può dunque impedire
il commercio privato delle derrate. Lo scambio, enuncia Lenin, è la libertà di
commercio, è il capitalismo. Nulla da far paura.
A fianco delle industrie già allora controllate dallo
Stato, e in vista di passare alla diretta gestione statale le più grandi
aziende, ossia di arrivare al grande capitalismo di Stato, è allora ancora
consentita, oltre l’artigianato, anche la piccola industria ed entrambe ammesse
ad accedere al mercato libero, con scambio monetario. Vi è il pericolo
economico di una riaccumulazione di capitale privato? Certamente. Si può
fronteggiarlo con la forza del potere politico, e ciò anche nell’ipotesi di
concessioni di gestione industriale a ditte private straniere? Certamente,
sempre per Lenin.
Una difesa di questa certezza politica è nel citato
discorso di Trotzky. Egli afferma che lo Stato sovietico controlla fabbriche con
un milione di operai (1922) contro soli 60 mila delle aziende libere minori.
Nei due casi, in effetti, gli operai sono salariati, acquistano il loro consumo
contro moneta sul libero mercato, e le aziende statali sono sottoposte
gerarchicamente ma autonome come bilanci; ossia debbono osservare la famosa,
ancora oggi rivendicata dagli stalinisti, redditibilità attiva: devono versare
un utile, un profitto, di regola, alle casse statali.
Economicamente parve a Trotsky che questo fosse solo
una concessione alla contabilità, alla computisteria capitalista. Ma era ed è
invece una piena concessione alla economia capitalista. Dove è salario, moneta,
premio delle vendite sulle spese, ivi è capitalismo, sia esso privato che di
Stato.
E sul piano politico che Trotsky ha ragione. La grande
industria nelle mani dello Stato, significa la forza politica e soprattutto
militare. Il capitalismo di Stato economicamente è, giusta Lenin, solo l’ultimo
gradino, dal quale si può passare al socialismo quando vi si sia saliti su
tutto il campo dai gradini piccolo-contadini, mercantili e privati. Ma è ben
diverso che lo Stato-capitalista sia politicamente borghese, o proletario. Nel secondo caso la grande
industria (e il commercio estero) monopolisticamente (Lenin) tenuti sono un fattore
(Trotsky) politico di prima forza. Vogliono dire avere l’esercito, l’armamento,
la possibilità di fermare le rivolte e la controrivoluzione. La possibilità di
aspettare, dirà il Trotsky del 1926, il socialismo di occidente. Sono tutto
questo, e con un gran peso storico: ma non sono il socialismo, come non lo è la
statizzazione di Ottone di Bismarck, di Ebert, o di Hitler.
La NEP significava campo libero al commercio delle
derrate. Se la terra era nazionalizzata e ne era vietato l’acquisto, non era
però impedito che si formasse, col ricavo delle vendite dei prodotti, un
capitale di esercizio agricolo: attrezzi, sementi, concimi, bestie, anche case
entro dati limiti. Il capitalista rurale o contadino ricco poteva risorgere e
ridurre a suoi salariati i contadini poveri di capitale, anche se avessero un
godimento di terra statale. Si giunse fino alla teoria: Questo non importa, se
dal capitalismo privato agrario potremo passare anche alla agricoltura di Stato
(allora rappresentata da rare aziende modello), e fu lanciata la parola di
Bucharin: Arricchitevi pure! Fu nel 1928 che si riprese la lotta contro i
kulaki e si mirò ad espropriarli: il sistema dei «colcos» andò prendendo il
loro posto. Si disse che il kulak era stato distrutto: lo Stato aveva potuto
farlo senza temere la rivolta nelle campagne sia per la pressione dei contadini
poveri sia per la forza che gli dava lo sviluppo dell’industrializzazione
(piani quinquennali). Studiata la struttura sociale dei colcos converrà
chiedersi: a quale prezzo si è pagata la sconfitta dei kulaki? E stata
veramente una salita dal gradino dell’agricoltura mercantile e del capitalismo
privato agrario al capitalismo statale nell’agricoltura?
In effetti il senso sociale del terzo periodo è questo.
Nella produzione di manufatti e nei servizi generali, diffusione del
capitalismo di Stato con ritmo potente ma sempre sulla base del salariato e
dello scambio monetario anche in un settore di commercio di Stato. Nella
produzione agricola, coesistenza di queste forme: Un grado di capitalismo di
Stato, limitato alle aziende sovietiche. Uno di cooperativismo privato, nelle
terre comuni del colcos. Uno di economia mercantile nel campicello singolo del
colcosiano e qui, insieme, uno ancora inferiore di economia naturale familiare.
E questa forma - in cui il gradino socialista è assente - più evolutiva delle
agricolture dei paesi borghesi? Anche questo è discutibile.
Particolare rilievo va dato al confronto fra le due
Costituzioni della Repubblica dei Soviet, quella del 1918, successiva
immediatamente alla rivoluzione bolscevica, e quella del 1936, dichiarata
corrispondente ad una consolidazione delle forme sociali sovietiche, cui si
diede la definizione di socialismo. La costituzione del 1918 si fonda sulla
«dichiarazione dei diritti del popolo lavoratore e sfruttato» formulata dal
partito il 3 gennaio 1918 e ratificata dal III congresso dei Soviet nello
stesso mese; il testo intero fu adottato dal V congresso il 10 luglio 1918.
La differenza dialettica tra i due testi è questa: nel
1918 il socialismo è lo scopo che deve essere raggiunto dallo Stato proletario,
ed è questa la costituzione della dittatura, la costituzione veramente
rivoluzionaria. Nel 1936 il «socialismo» è dato come conquista realizzata, la
costituzione diviene un atto statico, si dichiara stabilmente democratica, ed è
all’opposto l’espressione storica e giuridica di una situazione conservatrice.
L’analisi completa mostra all’evidenza questa antitesi insuperabile, e se ne
danno qui solo pochi cenni.
Nel 1918 si dichiara, in epigrafe, che il lavoratore è
tuttora sfruttato. Si definiscono i compiti dello Stato politico che i
lavoratori hanno fondato: soppressione dello sfruttamento (che c’è) e della
divisione della società in classi (che c’è) - vittoria del socialismo e
organizzazione della società socialista «in tutti i paesi» (che ancora non c’è)
- sterminio degli sfruttatori (che anche ci sono).
Le misure economiche immediate non sono socialiste:
nazionalizzazione della terra, delle acque, del sottosuolo - controllo operaio
e statale sull’industria «onde assicurare il potere dei lavoratori sugli
sfruttatori» (che dunque ci sono) - annullamento dei debiti di Stato - banca di
Stato - lavoro obbligatorio - armamento dei lavoratori e disarmo delle classi
possidenti (che dunque ancora ci sono). Il Capitolo III stabilisce la condanna
della guerra imperialista, dell’oppressione coloniale, della oppressione
nazionale. Il IV proclama che gli sfruttatori non possono in verun modo
partecipare al potere.
Tutta la parte sull’ingranaggio dei Consigli poggia
sulla diversa posizione dei proletari urbani e dei contadini della campagna.
Nella composizione dei Soviet di distretto e quindi in quella del Soviet centrale
un voto operaio equivale a cinque voti di contadini: questo stabilisce che la
dittatura, pure poggiando su due classi, dà assolutamente il posto di classe
dominante ai salariati autentici e il suo senso è che durante tutta la fase
storica - che non potrà chiudersi che dopo il trionfo di una rivoluzione
internazionale - della soppressione delle forme borghesi, gli strati
piccolo-borghesi sono sottoposti al proletariato salariato, cui in una
dittatura pienamente socialista apparterrà tutto il potere, fino alla
sparizione delle classi e dello Stato.
Nel 1936 la costituzione, sotto il pretesto che la
trasformazione sociale è molto più avanzata e lo sfruttamento abolito, viene
totalmente snaturata. A suo tempo svolgeremo la descrizione della società sovietica
come fondata su due sole classi: operai e contadini (non sono detti una vera
classe gli intellettuali, ed è giusto). Ora, delle due l’una: o non esistono
più classi borghesi, e allora la dittatura deve continuare in mano agli operai
soli, o esistono e la dittatura contro i borghesi deve continuare, e la
maggiore partecipazione ad essa degli operai rispetto ai contadini del pari.
Invece, col pretesto che le classi sfruttatrici sono state abolite, il
suffragio viene, in tutto conformemente al modello giuridico borghese, esteso a
tutti: è proclamato universale, uguale, diretto e segreto, vantando di avere
promulgata la costituzione più democratica del mondo odierno (il che è vero).
Dittatura significa suffragio non universale, ma di
classe. Nella repubblica di Lenin il suffragio era plurimo, non uguale: un
proletario vero vale cinque coltivatori poveri. Era
indiretto, non diretto: dal villaggio, al distretto, al governatorato, allo
Stato; sola forma in cui la separazione borghese tra potere legislativo ed
esecutivo è abolita. Era
pubblico, non segreto, come nelle adunate della Comune di Parigi elevata a
modello da Marx e Lenin. La costituzione 1936 è pienamente democratica perché è
quella di una repubblica borghese.
A suo tempo tratteremo del preteso impegno di Lenin di
ridare in breve tempo il voto a tutti. La dittatura doveva per Lenin durare
fino alla repubblica socialista in Europa: dopo, questa si abolirà perché si
abolirà lo Stato, e quando questo si abolirà, cesserà con esso ogni democrazia,
e suffragio.
Lo studio
della nuova costituzione in rapporto al codice civile vale a mostrare quante
forme sopravvivono, il cui contenuto è di profitto non da lavoro, e quindi di
quello «sfruttamento» che si afferma soppresso.
Gli
articoli base dichiarano che, dopo la liquidazione del sistema capitalista dell’economia,
vige una doppia forma di «proprietà socialista» (conosciamo una sola forma
socialista: la non-proprietà): una statale; l’altra cooperativa-colcosiana (dei
singoli colcos).
Sono proprietà dello Stato la terra, il sottosuolo, le
acque, le fabbriche ed officine, le banche, le grandi aziende agrarie statali
(sovcos) e «il complesso fondamentale del patrimonio edilizio nelle città e
nelle aree industriali». Sono (si spiega) «patrimonio del popolo intero». Ora,
fino a che esisterà lo Stato operaio, vi sarà un patrimonio dello Stato; ma non
sarà patrimonio di popolo, bensì di classe. Quando non vi saranno classi non vi
saranno proprietà e patrimoni. Le parole hanno il loro peso: ove trovi popolo,
trovi sistema borghese.
La terra anche del colcos è statale; proprietà del
colcos è l’azienda cooperativa, con le scorte vive o morte e gli immobili
sociali. Questo è chiamato proprietà socialista, laddove è proprietà, di un capitale
e di più degli immobili (fabbricati), nemmeno statale, ma di una privata
cooperativa.
Inoltre ogni famiglia appartenente al colcos non ha in
proprietà ma in godimento la terra. Ha poi in proprietà personale (art. 7) l’impresa
ausiliaria impiantata sul suo appezzamento: casa di abitazione, bestiame
produttivo, animali da cortile, e un piccolo inventano agricolo.
Né basta; è all’art. 8 ratificata la proprietà privata
personale dei piccoli contadini, e degli artigiani, con esclusione di lavoro
altrui.
Fermiamoci ora sul peso della proprietà statale, sia
pure con forma non socialista ma di capitalismo di Stato. Si ammette che nell’industria
dei manufatti (con grave riserva per l’edilizia in generale) essa sia totale,
trascurando quanto può esservi di piccole industrie private, e ammettendo anche
che in Russia la produzione artigiana non ha mai avuto un peso rilevante.
Ma che cosa è proprietà statale vera nell’agricoltura,
intendendo parlare qui non della terra-patrimonio ma del capitale investito
sulla terra? Solo il settore dei sovcos e delle stazioni di macchine. Ora si
ammette che questo abbia ben piccola parte, forse un decimo, rispetto al
settore «colcos».
Un altro decimo è in forma contadina, tra naturale e
mercantile, ancora privata-personale, e deve naturalmente ancora salire al
capitalismo, anche statale.
Resta il settore imponente dei colcos. Quanta terra è
delle unità-colcos, quanta delle aziende familiari libere? Poniamo (in questo
studio sommario) metà, metà il lavoro, metà il capitale mobile. Evidentemente
molto più della metà della forza lavoro agraria della popolazione si svolge
ancora in forme che sono o naturali o mercantili libere, e meno di metà nella
forma cooperativa del colcos, che è sempre una forma di azienda privata
capitalista sia pure collettiva, che pur versando imposte allo Stato dispone
del suo prodotto ed ha il suo bilancio fondato sul profitto di azienda.
L’agricoltura
russa è dunque per oltre metà sotto il livello del capitalismo privato, per
meno di metà a questo livello, per un decimo forse al livello del capitalismo
di Stato. Poiché tutti i prodotti si commerciano in moneta (vedi «Dialogato
con Stalin») non è per nessuna parte al gradino «socialista».
Aggiungiamo
il rapporto tra popolazione industriale ed agraria e vedremo quanto la Russia
sia lontana dal capitalismo di Stato integrale: gradino da cui si può - salvo
le condizioni politiche ormai barattate - salire al socialismo. A tempo verrà il confronto tra
questi indici e quelli di paesi capitalisti, come Germania od America.
Questo è un punto delicato. Come in ogni paese moderno
la più viva parte del potenziale capitalista si volge oggi all’edilizia privata
e pubblica intesa non in rapporto ai soli edifici abitativi, ma ad ogni
manufatto e servizio pubblico (strade, ferrovie, canali, centrali, dighe,
ecc.). Come in Russia funziona tale meccanismo? Per soli
organi statali, e per sole aziende, imprese, che rispondono del loro guadagno
allo Stato?
Per
risolvere tale quesito va rilevato che in tutto il mondo in questo campo la
intrapresa privata capitalista è ormai interamente mimetizzata. Non ha proprietà immobiliare
titolare, non ha stabilimenti e fabbriche, non ha sedi fisse, non ha titolari
certi, ha cantieri volanti e macchinario relativamente insignificante rispetto
ai colossali movimenti di affari. Non ha nemmeno capitale finanziario, che lo
Stato e per esso la Banca mette a sua disposizione sulla sola base della
«commessa». In essa avviene l’idillio moderno più dolce tra l’iniziativa
privata e il monopolismo statale. Per i nove decimi è in questa forma che in
pace e in guerra oggi il capitale, più che mai anonimo come Marx lo descrisse,
infesta l’umanità.
Dobbiamo notare che nel diritto civile russo, mentre lo
Stato dà la terra agraria in godimento anche perpetuo, circa i suoli urbani e i
manufatti urbani la forma è più complessa. Vi è un settore municipalizzato, che
collima con una vecchia forma capitalista di riforma urbanistica. Ma anche da
questo settore si fanno lunghe concessioni di costruzione che, come quelle
borghesi nei demani, coste, porti, ecc., comportano una lontana restituzione
alla pubblica amministrazione dopo ampio «ammortamento».
La più larga disamina di questo punto varrà a stabilire
che in questo campo, che assorbe i massimi investimenti del capitale
accantonato dallo Stato industriale e datore di lavoro a carico di un
proletariato a scarso consumo, avviene una larga generazione di plusvalore e
profitto privato sotterraneo.
D’altro canto il diritto civile consente il possesso
privato di tutta una vasta gamma di beni individuali: case, ville, parchi,
oggetti d’arte, mobilia, collezioni e raccolte, e inoltre titoli fruttiferi di
Stato, conti correnti di risparmio, denaro liquido accumulato e così via.
Quando lo Stato ha la proprietà titolare ed il
controllo di terra, suoli, fabbriche, manufatti di ogni genere, giacimenti,
ecc., e ne concede a vari stadi il godimento conservandone una proprietà
teorica e simbolica, non abbiamo affatto un sistema socialista.
Anche nel diritto comune e nell’economia finanziaria è
facile mostrare che proprietà e godimento collimano: il fatto reale è il
secondo, si risale alla prima con un semplice processo quantitativo.
Il godimento rispetto alla proprietà è ciò che è il
reddito rispetto al capitale, l’interesse rispetto al denaro messo a frutto.
Proprietà, capitale e denaro scritto in un titolo e serbati sotto una campana
di vetro non sfamano nessuno. Sono appetibili in quanto se ne abbia un
godimento: rendita, profitto, interesse. Hanno un valore stimabile in quanto il
calcolo parta da un cumulo di godimenti acquisibili in un futuro certo.
Ricordate Petty? Perché la terra vale venti rendite (capitalizzando la rendita
al medio 5 per cento)? Perché, diceva, questo è il tempo di vita tra due
generazioni di lavoratori manuali. Oggi con le solite formule di interesse
composto sappiamo che il capitale cento deriva dall’interesse cinque non perché
si abbiano venti anni di interesse, ma perché gli anni sono tanti e tanti, a
perdita d’occhio, e le rate di cinque lire valgono tanto meno quanto più
lontane: sommate tutte viene cento.
Questo vuol dire: Tenetevi la proprietà e datemi il
godimento: avrò tutto ottenuto. Con la «nuda proprietà» voi donatore, o lo
Stato donatore, restate a zero. Tanto è vero anche per il godimento
«vitalizio»: per un uomo giovane con le tabelle di probabilità si trova che
vale più del 90 per cento: il resto è quanto si attribuisce alla goduta
proprietà (ah; tu me l’hai goduta, Giannettaccio! urla nella Cena delle
beffe Neri impazzito). Togliere la proprietà, e distribuire godimenti, è
una Cena delle Beffe del socialismo. Spiegammo che abolire la proprietà
dei mezzi di produzione, come i russi vantano di aver fatto, non ha altro senso
che abolire la proprietà dei prodotti. Ma i mezzi
sono proprietà, i prodotti godimenti. Il socialismo in tanto è abolizione di
proprietà giuridica in quanto sia davvero abolizione di fisico godimento appena
proiettato nel domani. Godimento altro non è che consumo senza lavoro. Vogliamo togliere la proprietà
agli sfruttatori perché non se la godano. Nel 1918 scrivemmo di meglio: li
dovevamo sterminare. Oggi li trattiamo a godimento... socialista.
Essa che vanta d’essere nel socialismo va, a rotta di
collo, al capitalismo. Ha secoli da riguadagnare. Due cifre sole possiamo in
questa sintesi richiamare: in piena guerra civile era ad un terzo della
efficienza 1914, nel 1936 si dichiarava che era a sette volte tanto. Dunque in
16 anni circa il capitale era andato a ventuno volte la partenza, al
duemilacento per cento. Un ritmo (ignoto alla storia) di accumulazione
progressiva, che indubbiamente si è mantenuto ed accresciuto fino alla guerra
1939-45 e dopo. Questo capitale di Stato investe tanto più, quanto
meno consuma una borghesia ormai come persone dataci per assente. Il plusvalore non si divide tra
consumo della classe possidente e reinvestimento nella produzione; è tutto,
salvo quelle ville, quei quadri e quelle collezioni, nuovo investimento. Resta,
per tale motivo, inchiodato il tenore di vita e il tempo di lavoro del
proletariato. Costruire, armare, ricostruire, industrializzare, inghiottono
tutto. Al sacrificio del tenore di vita il proletariato russo ha aggiunto
quello della vita stessa, che è un potenziale plusvalore scontato alla banca
della guerra, regalato agli alleati dell’imperialismo democratico.
Negli anni eroici uccidemmo i borghesi, ma non per fare
socialismo: per fare più e più presto capitalismo. La storia sa le sue vie. Se
avessimo saputo che la Rivoluzione russa doveva essere così, nel suo percorso
futuro, parimenti l’avremmo propugnata e plaudita.
Il fenomeno oggi controrivoluzionario non è questa
corsa alla industrializzazione e questa tremenda velocità di accumulazione; non
è tanto meno, il suo rilancio sull’Asia. Il fenomeno controrivoluzionario sta
nella maschera di conquistato socialismo sovrapposta a tutto, sta nella
distruzione della potenzialità proletaria mondiale verso l’autentica conquista
socialista, sta nella possibilità data a tutti i capitalismi di persistere
sotto le ondate dei terremoti storici e ribadita nelle campagne pacifiste,
nelle vergognose gare emulative.
Dovremo, e dovranno le generazioni proletarie che
vengono, affrontare il capitalismo di occidente in una battaglia cui spetta,
prima che di armi, essere di teoria. Mentre quello di Oriente vanta il «pieno
impiego» in città e campagna di semi-digiunatori, i satrapi dell’Occidente e
dell’Oltreatlantico vantano, rubandoci il segreto ed il linguaggio marxista, di
essere giunti - moltiplicando la produttività del lavoro fino all’automatismo
(che essi scoprono oggi dalle nostre pagine di un secolo prima, ove fu sinonimo
di capitalismo), e moltiplicando ancora più con bisogni artificiali e folli il
volume dei consumi, perfino a credito e non pagati da nessuno - ad esaltare il
benessere ed il tenore di vita, a decurtare il tempo di lavoro. Il «boom»,
che conduce al giorno nero.
Ma non è di troppo una generazione, perché la classe operaia rivendichi di nuovo tutto il campo dell’esaltata produttività, di una organica produzione con un razionale consumo, di una ben drastica decurtazione del lavoro, e travolga le mostruose macchine di Oriente ed Occidente. Non è di troppo una generazione di validità lavorativa, i venti anni del vecchio Petty, da ora, 1955.
Partito comunista internazionale
www.pcint.org